L’uomo dei sussurri

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“L’uomo dei sussurri” è il titolo di un thriller del 2018 scritto dall’inglese Alex North, autore anche di “The Shadow Friend”. Devo dire che sono un pò prevenuta nei confronti dei thriller moderni, che spesso contengono descrizioni minuziose di delitti efferati, scendendo in particolari macabri che turbano il lettore e lo distolgono (forse è proprio questo lo scopo) dal filo narrativo.

Ma con North ho dovuto ricredermi. Questa la trama: Tom Kennedy, scrittore in crisi di creatività a causa della recentissima morte di sua moglie, si trasferisce con il figlio Jake in una tranquilla cittadina, per provare a ricominciare a vivere. Tom, però, non sa che in quel luogo, vent’anni prima, erano stati rapiti e uccisi cinque bambini, di cui solo quattro sono stati ritrovati. E Tom non sa nemmeno che, pochi giorni prima, un altro, analogo, episodio si è verificato, nonostante il colpevole dei cinque omicidi sia già stato arrestato e incarcerato a vita. Il responsabile della vecchia indagine, Pete Willis, un anziano poliziotto ex alcolista ormai redento, oggi affianca la giovane ispettrice Amanda Beck nelle indagini, per capire chi, dopo tanti anni, può aver emulato le gesta del cosiddetto Killer dei sussurri, l’uomo nero che attira i bambini mormorando piano il loro nome con voce melliflua e che, dopo averli tenuti segregati per mesi, li uccide.

La casa dove Tom e Jake vanno ad abitare ha la fama di essere stregata, ma il bambino ne è talmente affascinato che Tom, per non turbarlo ulteriormente, decide di prenderla. Il racconto si svolge lungo tre narrazioni diverse: una in terza persona che racconta le indagini, e due in prima persona, rispettivamente per voce di Tom e di Jake, ciascuno dei quali ha molte cose da raccontare e su cui riflettere. I difficili rapporti tra padre e figlio, acuitisi dopo la morte di Rebecca, madre e moglie insostituibile, sono dovuti essenzialmente al fatto che Tom è preoccupato per il bambino, che parla da solo, o meglio parla con qualcuno che non si vede. Tutti abbiamo avuto un amico invisibile, nella nostra infanzia. Qualcuno cui confidare le nostre pene e i nostri sogni, ma qui è diverso, perchè il lettore capisce subito che Jake non parla da solo ma con degli interlocutori precisi. La sua pare essere una vera e propria medianità, che si rivela appieno solo nelle ultime righe del libro, una medianità che nel tempo può essere scambiata, di volta in volta per stravaganza, problema psicologico, o addirittura dialogo segreto con l’uomo dei sussurri, che vuole prendere anche lui.

Lo snodarsi delle situazioni è perfetto, senza sbavature, il succedersi degli eventi lascia con il fiato sospeso fino all’ultimo. Le scene sono intense e visibilissime, come in un film, ma non terrorizzano, o disgustano, nemmeno quanto potrebbero. Jake è il vero protagonista della storia, un ragazzino terribilmente intelligente e sensibile, che trova un validissimo appoggio nell’unica amica invisibile che tutti noi vorremmo: la mamma. Da leggere subito.

Un uomo dimezzato

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È la natura umana il fulcro del racconto fiabesco “Il visconte dimezzato”, di Italo Calvino. Un racconto che lessi, ragazzina, molti anni fa, e che non capii fino in fondo. Mi era sembrata una favola, dove l’odore della morte, le brutture, le malattie, la cattiveria, la facevano un po’ da padroni. Ma ero molto giovane, troppo, per capire cosa si potesse leggere tra le righe di quel racconto. Dopo tanti anni, ci sono tornata sopra, ho riletto, alla luce delle mie esperienze di donna, le pagine di Calvino e ho capito altro, molto altro. La storia del Visconte Medardo di Terralba che, partito per la guerra pieno di baldanza e di speranze di gloria, torna dimezzato dall’effetto devastante di una palla di cannone sparatagli in pieno petto, torna con la sua sola parte malvagia, è la storia di qualsiasi uomo che si sia trovato di fronte al male. Il male, la cattiveria altrui, la cattiveria di chi ci abbandona, di chi ci tradisce, di chi ci rifiuta, di chi uccide le nostre speranze ci ferisce, ci menoma, uccide i nostri sogni, e può renderci cattivi. Medardo è un uomo ferito, nel senso più drammatico della parola, che perde la capacità di amare, di comunicare, di vivere in mezzo ai suoi simili, e che, per sopravvivere, si costruisce un nascondiglio e un lessico tutto suo, fatto di gesti più che di parole, parole che non sa più pronunciare. E le persone che lo circondano diventano nemici, a loro vuole riservare lo stesso trattamento che è stato fatto a lui, non conosce perdono né redenzione. Ma la vita riserva tante sorprese. E l’uomo ferito si innamora, comincia a capire che al di là di quel muro di silenzio e di incomprensione c’è qualcos’altro che può appartenergli. Ma in che modo conquistare la bellezza dell’amore? Non certo con la violenza, e nemmeno con l’inganno, perché la bella Pamela è ingenua ma non è scema, è onesta e chiede onestà. Però è anche innamorata, e sa che, da qualche parte del mondo esiste la parte buona di Medardo, che (siamo in una fiaba, appunto), sta vagando in cerca della sua metà. E cosa può fare d’altro una donna innamorata se non adoperarsi perché il suo uomo riacquisti l’integrità della sua umanità, nel bene e nel male? L’inganno di Pamela, il suo unico inganno, è a fin di bene, e coglie nel segno, sana la ferita, ricongiunge il maschile e il femminile nel corpo e nell’animo di Medardo. Una splendida storia moderna e dalla grande valenza morale. Un grande Calvino.

I primi passi da biografa

La mia prima esperienza di scrittrice fu una biografia, anzi 7. Durante il periodo di collaborazione con la pagina della Cultura del Secolo XIX (quella che una volta gli addetti ai lavori chiamavano Terza Pagina), mi trovai coinvolta nelle celebrazioni degli eventi Risorgimentali, e mi chiesero di scrivere sette biografie in pillole di sette donne coinvolte a vario titolo nelle avventure mazziniane, a cominciare dalla madre di Mazzini. Non è facile riassumere la vita di una persona in sette/otto cartelle, ma è un ottimo esercizio, perchè consente di allenare la capacità di sintesi, di analisi, di comprensione di quelli che sono i motivi di maggiore interesse di quella vita. Anzi, direi che se uno riesce a scrivere una biografia in sette cartelle è già a buon punto perchè è molto più semplice ampliare un discorso che sintetizzarlo.
Tutti i miei lavori, poi confluirono in un volume di Autori Vari, Finestra sul Risorgimento, penso sia ancora reperibile online. E’ possibile che su qualche sito sia indicato come libro di Andrea Casazza, ma è un’indicazione errata perchè raccoglie contributi di molti colleghi e storici, compresa me.

Noir

Chi non ricorda “Il corvo”, film capolavoro di Henry Clouzot? Ritratto amaro ed impietoso degli abitanti di una cittadina di provincia, la cui apparente tranquillità viene sconvolta da una serie di lettere anonime in un crescendo maestrale di tensione e di sospetti, il film ha segnato uno dei momenti di maggior splendore nella storia del cinema noir francese. Di questo e di molti altri gioielli del genere, più o meno noti, parla un libro, “Cinema poliziesco francese”, edito dalla genovese “Le Mani” (215 pp., 15 euro): l’autore, Mauro Gervasini, è critico cinematografico ed esperto di “polar”, cioè appunto di poliziesco francese.
Dal libro di Gervasini emergono, attraverso l’analisi della storia del cinema noir francese fin dalle sue origini (i primi due polar del cinema transalpino “La nuit du carrefour” di Renoir e “La tête d’un homme” di Duvivier, furono, guarda caso, ispirati a romanzi di Georges Simenon), le caratteristiche proprie e le differenze con altri filoni analoghi, come il poliziesco americano. I registi francesi, infatti, hanno da sempre preferito porre l’accento sull’approfondimento psicologico dei personaggi, scavando nella loro storia personale, analizzando l’ambiente e le circostanze più che preoccuparsi dell’intrigo o dell’azione: basti pensare al “Fantomas” di Louis Feuillade del 1912, e poi a “Pépé le moko”, a “Il Porto delle nebbie” (“Quai des brumes”), indimenticabile interpretazione di Jean Gabin e Michèle Morgan del 1938, ma anche ad opere meno conosciute ma ugualmente interessanti come “Piena luce sull’assassino” del 1961, dominato dal bravissimo Pierre Brasseur.
Un capitolo a parte è dedicato dall’autore di “Cinema poliziesco francese” al regista Jean Pierre Melville la cui produzione rappresenta il momento di sintesi fra noir francese e poliziesco americano. Melville diresse numerosi film culto, come “Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide” con Lino Ventura ed “Le Samuraï”, intrigante e raffinata analisi del codice d’onore di una singolare figura di killer, con un Alain Delon al massimo del suo fascino.

L’amore di Mazzini

Sta per essere pubblicata una seconda edizione del mio libro “Giuditta Bellerio Sidoli. Vita e amori”. Una biografia appassionante, la storia della vita di una donna poco conosciuta, ma che costituì un punto di riferimento importantissimo nella vita di Giuseppe Mazzini.

Per “prepararsi” all’uscita del volume, che sarà anche il libro pilota della nuova collana editoriale “Mnmosine” della Licosia Edizioni, sono in programma alcuni eventi nella mia città, Genova, di cui vi darò notizie prossimamente. Per il momento vi do un assaggio, raccontando qualcosa di questo personaggio femminile, che viaggiò in incognito per mezza Italia, braccata dalla Polizia di tutti gli stati per riuscire a ricongiungersi con  i propri figli.

“Gian Bologna, capo della polizia a Firenze, si stupì non poco quando il 12 dicembre 1833 gli dissero che la signora Pauline Gérard voleva vederlo: quella donna era un cruccio per lui, perché aveva ricevuto dal ministro per l’Estero Fossombroni una lettera allarmante. La lettera diceva: “Il dipartimento degli Affari esteri è stato segretamente informato come il Comitato centrale della Giovine Italia…..abbia spedito in questi giorni nella capitale di questi regi dominii un’emissaria, allo scopo di mettere in relazione i liberali toscani….coi capi della setta residente in Svizzera, e soprattutto con Giuseppe Mazzini…Le informazioni segnalano come pericolosissima la suddetta emissaria…”. E, guarda caso, in ottobre era giunta da Marsiglia una giovane donna, Pauline Gérard, appunto, ed il Bologna aveva il dubbio che potesse essere lei l’inviata di Mazzini.
Le sue perplessità aumentarono quando se la trovò di fronte. Era indubbiamente molto bella, anche se l’abito invernale scuro la infagottava un po’: slanciata, con folti capelli castano chiaro e dolci occhi neri e con l’aria spaurita di chi ha un peso sul cuore. Dichiarò subito il suo vero nome, Giuditta Bellerio, vedova di Giovanni Sidoli; spiegò tra lacrime e sospiri di aver nascosto la sua identità per riuscire a tornare in Italia e giurò di non avere altro scopo che quello di rivedere i suoi quattro bambini.
Il funzionario decise per il momento di lasciarla libera, ma ordinò che fosse sorvegliata giorno e notte. La vigilanza fu inutile: Giuditta Sidoli era una donna molto prudente e sapeva che la polizia la teneva d’occhio. Del resto il suo viaggio era veramente un tentativo di riavvicinamento ai figli: Maria, Elvira, Corinna e il piccolo Achille le erano stati tolti tre anni prima da suo suocero, Bartolomeo Sidoli che, pur essendo un uomo fondamentalmente buono e generoso, li aveva presi con sé a Reggio Emilia per tenerli lontani dalla madre, coinvolta nelle vicende rivoluzionarie di quegli anni.
E Giuditta, ormai, in quelle vicende era irrimediabilmente coinvolta. Nata a Milano nel 1804, figlia del barone Andrea Bellerio, era stata educata in collegio e ne era uscita solo a sedici anni per sposare il bel Giovanni Sidoli, un ricco giovane di Montecchio di Reggio Emilia che aveva aperto il cuore e la mente alle idee di libertà che le società segrete cominciavano a divulgare ed aveva trasmesso la sua passione alla giovane moglie.
Ma la loro vita insieme era durata pochi anni. Già nel 1822, un’improvvisa perquisizione della polizia ducale nella villa dei Sidoli a S. Pellegrino aveva consigliato che Giovanni lasciasse l’Italia: aiutato da suo padre era fuggito in Svizzera, appena in tempo, perché con sentenza del 17 settembre 1822, veniva condannato a morte in contumacia dal tribunale di Rubiera. I motivi della condanna erano inconsistenti (appartenenza alla società segreta dei Sublimi Maestri Perfetti, costituitasi a Reggio ed acquisto per i consociati di polvere da sparo), ma sufficienti a costargli la vita.
Giuditta lo aveva raggiunto, portando con sé la figlia Maria di pochi mesi. Durante l’esilio in Svizzera erano nati altri tre bambini, ma qualche anno dopo, nel 1827, Giovanni si era ammalato di tubercolosi ed era morto il 3 febbraio 1828 a Montpellier, dove si erano trasferiti: rimasta vedova a soli ventiquattro anni, Giuditta aveva deciso di tornare in Italia con i suoi figli.
Il suocero l’aveva ospitata volentieri e l’avrebbe tenuta con sé, se quella benedetta ragazza non si fosse cacciata di nuovo nei pasticci: in quel periodo a Modena, Parma e Forlì, un gruppo di liberali tra cui Ciro e Celeste Menotti, Carlo e Nicola Fabrizi ed altri, stava organizzando la cospirazione che sarebbe culminata nei fatti drammatici del 1831, a causa dell’ambiguo comportamento del duca di Modena, Francesco IV. Giuditta aveva partecipato attivamente ai preparativi dell’insurrezione, adoperandosi tra l’altro per organizzare una guardia nazionale che avrebbe dovuto sostituire il presidio urbano dopo la cessazione del Governo del duca. Per questa attività era stata condannata all’esilio ed aveva dovuto abbandonare i figli e trasferirsi a Marsiglia. Là, nel 1832, era riuscita a prendere in affitto una bella casa in rue Saint Ferréol e presto era entrata in contatto con gli esiliati italiani, tra i quali vi erano anche Celeste Menotti, Giovan Battista Ruffini, Gustavo Modena e Giuseppe Mazzini.
Mazzini era un uomo solo, anche se attorniato da amici e sostenitori, solo con i suoi progetti, i suoi ideali, i suoi tormenti interiori: all’inizio, i pomeriggi e le serate passati nella casa di rue Saint Ferréol insieme agli altri, gli sembrarono soltanto piacevoli momenti di comunione e di scambio, poi le cose cambiarono. Giuditta Sidoli era intelligente, appassionata, impulsiva e dimostrava uno straordinario equilibrio di volontà ferrea e sensibilità: Mazzini se ne era innamorato perdutamente (ma non la sposò). Fra tutte le donne che gravitarono nell’orbita del grande cospiratore, lei rimase “l’unica”, “l’amata come qualcosa di grande, di santo, di bello, che non si è degni di definire”. Era divenuta prima la sua fedele confidente, poi l’amante, anche se nel maggio del 1833 scriveva all’amico Giuseppe Rondanini “Io sono oltremodo stanca dal sopportare l’emigrazione, cioè dell’essere divisa dai miei bambini…..provo, alcuni momenti, d’un dolor tale da non potere esprimere”.
Proprio in quel mese era stata istituita una Commissione speciale militare con l’incarico di stroncare ogni attività rivoluzionaria, anche solo di diffusione di pubblicazioni. Perquisizioni e condanne durissime si erano susseguite: Jacopo Ruffini, amico fraterno di Mazzini si era ucciso in carcere nella notte tra il 18 ed il 19 giugno e Mazzini stesso era stato condannato a morte in contumacia il 26 ottobre. I due amanti avevano forse da poco avuto un figlio: sulla base di riferimenti indiretti contenuti nel loro carteggio, molti studiosi ritengono che il bambino, Giuseppe Demostene Adolfo Aristide, nacque a Marsiglia e morì a pochi mesi. La Sidoli, delusa dall’andamento della sua vita sentimentale e dal fallimento dei programmi politici, aveva lasciato Mazzini e lui ne soffrì molto. “…Io ho un presentimento” confidò in una lettera a Luigi Amedeo Melegari, giureconsulto e uomo politico, “che non la vedrò mai più. Per lei era meglio ch’io non l’avessi veduta mai…..L’ho travolta nel mio destino, e n’ho rimorso vero, perch’io quando la vidi avea pur giurato a me stesso di non amar più persona del mondo….Possa ella almeno viver tranquilla sino all’abbraccio de’ suoi bambini! Io non posso farla felice, ma l’amo”. Col tempo quel vuoto che sembrava incolmabile fu invece colmato da altre donne, anche da George Sand ma, per Mazzini, Giuditta Sidoli rimase sempre una tenera amica, grazie alla quale era riuscito a superare persino il pensiero del suicidio che lo aveva sfiorato nei momenti più bui della sua vita, quelli della perdita della sorella, delle calunnie, della tragica morte di Jacopo Ruffini.
Prima di raggiungere Firenze, Giuditta si era fermata per qualche tempo a Montpellier dov’era sepolto suo marito e dove si era rifugiato Gustavo Modena. L’attore sarebbe rimasto in esilio non solo per motivi politici ma anche per amore della contessina Giulia Calame, che lo sposerà nel 1836 contro la volontà della famiglia e con lui vivrà i momenti più esaltanti del Risorgimento, partecipando tra l’altro alla difesa di Roma nel 1849 come infermiera volontaria al fianco di Cristina di Belgioioso.
Ora, nel dicembre 1833, Giuditta era a Firenze e doveva pensare ai suoi bambini: l’amore per Mazzini non era certo stato un fuoco fatuo, ma ad alimentare questo amore non bastava il fascino degli ideali. Il ricordo veniva lentamente sopraffatto da affetti più profondi e concreti, come quello per i figli, e da un insopprimibile desiderio di libertà. Intanto lui, solo e sconfitto le scriveva: “Se potessi averti, abbracciarti, dormire una sola volta con la testa appoggiata sulle tue ginocchia…amami quanto puoi, io ti amo quanto tu puoi volerlo….”.
La sorveglianza della polizia toscana su Giuditta servì solo a scoprire che la giovane signora non osservava i precetti religiosi, mangiava carne il venerdì e riceveva alcune visite, soprattutto quelle del marchese Gino Capponi, Gran Ciambellano del Granduca. Alto, con il viso lungo dominato da occhi chiari e profondi, Capponi era a quell’epoca uno dei maggiori esponenti della cultura liberale italiana. Discendente di una famiglia di tradizioni antichissime, non faceva mistero delle sue idee, protetto dalla posizione sociale e dalla ricchezza e si distingueva anche per una grande coerenza morale.
Fra la bella vedova ed il gentiluomo quarantenne nacque una tenera amicizia e forse qualcosa di più. Fatto sta che “il caro Gino” come lo chiamava lei, l’aiutò, la consigliò, la protesse, favorì anche un suo tentativo di fuga verso Lucca e, dopo che le autorità lo scoprirono, intervenne per attenuarne le conseguenze. Con l’aiuto del marchese, Giuditta aprì il suo salotto alla società liberale toscana, sempre sotto l’occhio vigile della polizia. Dopo vari tentativi di riabbracciare i figli, nel settembre del 1834 decise di partire per Napoli, pressata dalle insistenti lettere di Mazzini che voleva rinsaldare i rapporti con gli esponenti napoletani della Giovine Italia ed al contempo cercava di riaccendere in lei una passione che sentiva affievolirsi.
A Napoli la Sidoli ebbe frequenti contatti con il conte Ferretti, uno dei fautori dei moti rivoluzionari del ’31, poi, all’inizio del gennaio del 1835, si trasferì a Roma e continuò la sua fitta corrispondenza con Mazzini. Mentre lei scriveva a Capponi “Io voglio rivedervi…vi vorrò bene e non mi scorderò mai…”, Mazzini sentiva odore di tradimento d’amore e le raccomandava: “quell’uomo non mi piace, diffida di lui”.
Mazzini e la Sidoli non sapevano però di essere controllati molto da vicino, né tantomeno sospettavano che chi informava la polizia era probabilmente Michele Accursi, amico di Mazzini. In una sua lettera alla polizia romana si legge: “…Questa donna ha un mirabile ingegno, forse unico per donna; e che senza dividere interamente le opinioni con Mazzini vi è fra loro un affetto ed una stima reciproca……Voi potete sorvegliare la corrispondenza senza però arrestarla, perché sarebbe cosa di niun vantaggio…”.
Intanto Gino Capponi, preoccupato per l’angoscia in cui viveva Giuditta a causa della lontananza dai figli, favorì una sua richiesta di aiuto al Cardinale Bernetti, perché intercedesse presso il duca di Modena. Il Cardinale si attivò subito ma il duca fu irremovibile: le fu comunque concesso di soggiornare a Bologna ed il suo affetto per Capponi aumentò ulteriormente.
Nel 1837 riuscì finalmente a stabilirsi a Parma; spesso però tornava a Firenze, a trovare Gino Capponi che stava diventando cieco. Passavano lunghi pomeriggi insieme e lei gli parlava dei suoi figli, che crescevano in collegio, mentre lui le spiegava i suoi progetti politici. Nel 1839 il vecchio Sidoli morì, ma Giuditta riebbe Maria, Elvira e Corinna solo nel 1843: erano diventate belle, intelligenti e coraggiose come la madre e poco dopo anche Achille poté unirsi a loro.
Per lei fu come toccare il cielo con un dito e la grande casa di Parma divenne il punto di incontro di tanti spiriti liberi, grazie anche al tollerante governo della duchessa Maria Luigia. Le idee mazziniane di Giuditta furono anche dei suoi figli: le ragazze si adoperarono in favore dei cospiratori, mentre Achille combatté per l’unità d’Italia e nel 1849 partecipò alla difesa della Repubblica Romana.
In quello stesso anno Mazzini e la Sidoli si rividero. Fu a Firenze. Il perché della presenza di lei in quella città risultò chiaro a Mazzini, che scrisse all’amico Lamberti “Ti scrivo dalla casa di Giuditta, che ho riveduto con più gioia che non posso dirti. Comincio l’ultimo periodo della vita errante e Dio sa dove vado a finire”. Parole che rendono bene l’amarezza per un amore ormai perduto per sempre.
All’inizio degli anni ‘50 a Parma, dopo la morte di Maria Luigia d’Asburgo-Lorena (1847), il regime poliziesco del Ducato si era allineato con quello di Modena e le perquisizioni in casa Sidoli, anche se infruttuose, portarono ad un nuovo esilio.
Giuditta trascorse a Torino l’ultimo periodo della sua vita, circondata dall’affetto dei figli, seguendo costantemente le vicende politiche italiane e quelle degli uomini che aveva nel cuore. Mazzini le faceva visita clandestinamente e Capponi condivideva con lei i suoi successi politici (nel 1859 fu presidente della Consulta di Stato nel Governo provvisorio e poi Senatore del Regno).
Entrambi piansero la sua morte il 28 marzo 1871”.

Una nuova avventura

Nata il 4 luglio. E’ Mnemosine, la nuova collana lanciata proprio il 4 luglio dall’editore Licosia. Ne parlo non soltanto perché ho assunto la direzione della collana, ma anche perché si tratta di un progetto articolato, che mira a recuperare e valorizzare storie di donne poco conosciute o poco studiate. Perché questo nome? Mnemosine è la Memoria. Nella mitologia si accoppiò con Giove e, dopo nove notti di amore, concepì le nove Muse. Dunque la madre di tutte le arti, ispirazione perenne per ritrovare spunti di bellezza perduti nel passato. E questo è il compito del comitato scientifico di Mnemosine, un gruppo di donne che lavorano nei più disparati campi professionali, amano, apprezzano il bello e il buono della vita, ma soprattutto apprezzano la lettura, e dedicheranno il poco tempo che rimane a loro disposizione per aiutare autori e autrici a realizzare il loro sogno nel cassetto: pubblicare un libro. A queste amiche va la mia gratitudine, con l’auspicio che Mnemosine, la nostra Mnemosine, partorirà ben più di nove capolavori.

L’invito a leggere la scheda della Collana è rivolto a tutti, perché in ognuno di noi si nasconde uno scrittore, che probabilmente sta solo aspettando di essere scoperto. Il secondo invito che vi rivolgo, cari “followers” è di diffondere attraverso i vostri canali, che, in quanto vostri sono privilegiati, la notizia dell’esistenza di questa Collana. Perché spesso il successo di un’iniziativa è dovuto al passaparola. Grazie.

https://www.licosia.com/?page_id=3155

Antonia, storia di una musa

27/03/2018 10.49.16

Project Leucotea annuncia l’uscita del nuovo romanzo di Simonetta Ronco “Antonia storia di una musa”.

Un valido esempio per l’inizio dell’emancipazione femminile.
Su questo affascinante personaggio della storia di Genova tra Sette e Ottocento esistono poche pagine sicure, per lo più notizie della Gazzetta, lettere o poesie di amici o ammiratori. Sfruttando i rari spunti disponibili si è provato a raccontare un po’ più liberamente la storia di Antonia Costa Galera, collocandola nella Genova di quel tempo, così ricco di avvenimenti e popolato di personaggi che compaiono nelle cronache ben più spesso di lei.
La sua vita fu, un po’ come molte altre vite, a tratti movimentata e felice e a tratti solitaria e insidiata dai rimpianti, anche se la sua scelta in campo matrimoniale si rivelò fortunata: un marito affettuoso e fedele, due figli che furono per lei motivo di orgoglio e di consolazione. Protagonista di alcuni degli episodi clou della parabola napoleonica, molto amata e a volte odiata, Antonia da giovane sposa inesperta, divenne una donna forte e determinata, seppe destreggiarsi con abilità nella pania delle relazioni sociali, seppe sempre mantenere un ottimo equilibrio tra vita pubblica e vita privata, agì in completa libertà di discernimento nei confronti del marito, ma mai per offenderlo o recargli danno. La sua vita, insomma, è, ancora oggi, un utile esempio per le donne moderne.
Simonetta Ronco, genovese, è docente universitaria e giornalista pubblicista. Collabora con Il Secolo XIX, http://www.Teatro.org, Resine, Satura.
Nella sua produzione, oltre numerosi articoli e testi scientifici didattici, ricordiamo anche: Madama Cristina. Cristina di Borbone duchessa di Savoia, (2005), Adriana. Una straniera a Sanremo, (2006), Segreti, (2008), Giulia di Barolo, una donna fra Restaurazione e Risorgimento, (2008), Melagrane e fichi d’India, (2010), Février e l’enigma degli uccelli, (2013); Février e un caso di coscienza,(2017).

Antonia, Storia di una Musa

E’ in uscita il mio nuovo libro, “Antonia, storia di una musa”, per i tipi di Leucotea.

Una donna giovane e bella si muove nella Genova di fine Settecento, un periodo ricco di avvenimenti e popolato di personaggi che hanno fatto la storia dell’Europa. Antonia, Storia di una musa, è il racconto romanzato della vita di Antonia Costa Galera, che da giovane sposa inesperta, divenne una donna forte e determinata e seppe sempre mantenere un ottimo equilibrio tra vita pubblica e vita privata. Un esempio ancora valido per le donne del nostro tempo.

Il lancio è fissato per il giorno 27 marzo. Il libro sarà reperibile nei circuiti librari entro una quindicina di giorni dal lancio. Dal 27 marzo tuttavia, sarà possibile acquistarlo in anteprima sul sito dell’editore, www.edizionileucotea.it

Asimmetrie amorose nel romanzo gotico

1. L’orrido e il sublime, il panico e l’estasi, l’amore e l’odio: sono, questi, tutti gli ingredienti di una ricetta di successo, che ha conquistato stuoli di lettori, soprattutto inglesi, nell’arco di più di un secolo e che ha influenzato anche alcuni generi letterari successivi, tornando poi recentemente alla ribalta grazie a saggi e raccolte1.

La ricetta cui mi riferisco è quella del “romanzo gotico” o Gothic Novel, il tipo di narrazione che meglio esprime la poetica del tetro e del lugubre nella letteratura mondiale. E’ mia intenzione soffermarmi, più che sulle molte caratteristiche note del romanzo gotico, su un suo aspetto particolare, quello dell’evolversi in esso del rapporto amoroso. La “asimmetria amorosa” che costituisce il titolo di questo articolo attiene proprio allo sviluppo dei sentimenti nei protagonisti delle storie di molti dei più celebri romanzi gotici, uomini e donne coinvolti, volontariamente o loro malgrado, in vicende oscure e tremende. Mi pare così interessante compiere una sorta di “ermeneutica dei sentimenti” negli intrecci amorosi che i vari autori disegnano, cogliendone gli aspetti di analogia e le differenze.

2. Ma quali sono stati gli esordi del romanzo gotico? Vi sono a questo proposito due aspetti che occorre tenere presenti per comprendere il motivo del successo di questo genere letterario. Il primo aspetto è quello della contrapposizione tra razionale e irrazionale nella cultura della seconda metà del Settecento: nel secolo dei Lumi e della razionalità dominante, una fronda artistica e letteraria cominciò a proporre in modo sempre più convinto la forza dei sentimenti e delle emozioni. Questa opposizione, che porterà più tardi allo sviluppo del Romanticismo, grazie a una non comune commistione tra arte e letteratura traeva ispirazione dal Gotico architettonico, in cui domina una decisa predilezione per il lugubre, per le rovine e per immagini paurose e deformate dalla fantasia onirica. Lo scopo degli scrittori gotici era di impressionare lo spettatore e di coinvolgerlo in un tourbillon di situazioni totalmente al di fuori dell’ordinario: passaggi segreti, interminabili sotterranei, fitte foreste, castelli diroccati e cimiteri erano i luoghi dove immancabilmente si svolgevano e spesso avevano il loro epilogo le vicende dei protagonisti.

Un secondo aspetto che aiuta a chiarire il perché della diffusione del romanzo gotico è la capacità di queste storie di riflettere da un lato i timori e le incertezze degli uomini che vissero nel periodo compreso tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento per la sorte dell’umanità (non dimentichiamo che molti Paesi furono sconvolti da rivoluzioni civili e militari e che l’Inghilterra fu interessata dal fenomeno sociale della Rivoluzione Industriale); dall’altro la loro diffidenza verso la religione. Il romanzo gotico esprimeva proprio questo disagio latente dell’uomo e del suo io profondo in rapporto con la natura e con la società: le sensazioni forti che i lettori traevano da quei racconti veicolavano ansie, patemi, incubi e fobie che nella vita di tutti i giorni non potevano trovare sfogo; il soprannaturale stimolava l’immaginazione e riusciva a soddisfare il bisogno di piacere e di terrore, offrendo rompicapi capaci di sfidare la razionalità.

3. Di questa corrente letteraria, romanzo pilota fu Il Castello d’Otranto di Horace Walpole, il quale spiegò in una lettera del 9 marzo del 1765 la nascita del suo capolavoro: “Volete che vi confessi quale fu l’origine di questo romanzo? Un mattino, all’inizio dello scorso giugno, mi svegliai da un sogno di cui riuscivo soltanto a ricordare che m’era parso di trovarmi in un antico castello e che sul pianerottolo più elevato di un grande scalone avevo visto una mano gigantesca, rivestita d’una armatura. La sera stessa sedetti a tavolino e cominciai a scrivere, senza avere la minima idea di ciò che intendessi dire o raccontare. Il lavoro mi crebbe tra le mani e mi ci affezionai; per di più ero lietissimo di occuparmi”2.

In Il Castello d’Otranto, ambientato nell’Italia medievale, luogo, secondo l’autore, di intrighi e delitti, si affiancano due convenzioni narrative che fino a quel momento erano state tenute ben distinte: il soprannaturale e il quotidiano. L’effetto è quello di una brutale irruzione dell’assurdo nella vita reale e di una liberazione improvvisa della storia da regole e preoccupazioni di verosimiglianza. La morte del giovane Conrad schiacciato da un gigantesco elmo caduto da non si sa dove e altri eventi soprannaturali (l’apparizione di enormi braccia, di fantasmi, ecc.) costellano la vicenda principale, in cui il signore di Otranto, il crudele e cinico Manfred, cerca invano di conservarsi castello e dominio, arrivando persino a ripudiare sua moglie e a tentare di sostituirla con la promessa sposa del figlio defunto. Non riuscirà però nella sua impresa, anche grazie all’intervento di un giovane di nobili sentimenti.

Comincia qui già a delinearsi, seppure in modo imperfetto, l’asimmetria amorosa di cui si è detto. Lo schema è quello che vede una donna bella e pura contesa tra due uomini, di cui uno è l’incarnazione del bene, l’altro l’incarnazione del male. L’amore per la stessa donna oppone i due protagonisti, sempre guidati nelle loro azioni dal desiderio di conquistarla. E questa lotta per la conquista, se nella maggior parte dei casi si conclude con la sconfitta dell’eroe negativo, ne vede alcune volte una sorta di redenzione conclusiva nella morte, a insegnamento che il lato oscuro e dominato dalle passioni primordiali presente in ciascun uomo, può essere dominato e vinto grazie anche alla presenza positiva della donna, la cui funzione salvifica è evidente.

4. Addentrandoci un po’ di più nello specifico delle storie e nella psicologia dei personaggi, è subito da notare che la figura dell’eroe malvagio è presente in tutti i romanzi tipicamente gotici e in quelli che da essi trassero ispirazione, tra i quali si fa rientrare, per convenzione (Manzoni aveva amato molto la produzione gotica) anche I Promessi Sposi.

La cosiddetta “Scuola del terrore” avviata da Walpole ebbe presto molti accoliti: la scrittrice inglese Ann Radcliffe, per esempio, che esordì nel 1789 con The Castles of Athlin and Dunbayne, e fu poi consacrata come l’esponente più significativa del romanzo storico in chiave gotica con Il romanzo della foresta (1791) e I Misteri di Udolpho (1794). Con Il Monaco di Matthew Gregory Lewis il romanzo gotico raggiunse una delle sue più alte vette: il romanzo racconta di un monaco che su istigazione del demonio perseguita una giovane donna. Ecco di nuovo il male incarnato in un personaggio maschile. In questo, come nei precedenti citati, tuttavia, l’approfondimento psicologico è ancora molto in embrione. Occorrerà aspettare gli inizi dell’Ottocento per avere due romanzi gotici in cui gli autori mostrano una vera capacità di sottile analisi psicologica dell’eroe del male e una tecnica letteraria più moderna: si tratta di Melmoth l’errante di Charles Robert Maturin e di Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Wollstonecraft Shelley. In Frankenstein, in particolare, si rivelano i prodromi di un progresso nell’intreccio amoroso e una maggiore propensione a delineare il personaggio negativo meno cinico e spietato. La storia è nota: lo scienziato Frankenstein viola le regole che delimitano la possibilità di conoscenza e di creazione dell’uomo, e dà vita a un mostro: ma questo mostro non è malvagio in sé, è solo ribelle contro la società che lo vuole emarginare, se non addirittura eliminare. Egli chiede al suo creatore di procurargli una compagna e quando costui rifiuta, reagisce con queste parole: “sono malvagio perché sono infelice. Non sono io evitato e odiato da tutta l’umanità? Tu il mio creatore mi faresti a pezzi con piacere; pensa un po’ a questo e dimmi, perché dovrei avere pietà per l’uomo più di quanto egli ne ha per me?”.

La stessa psicologia anima un altro “mostro”, il celebre Erik de Il Fantasma dell’opera. In questo romanzo tardogotico (1910) il giornalista francese Gaston Leroux delinea il prototipo dell’eroe spaventoso e sfortunato, follemente innamorato di una donna che non sarà mai sua. Con Il Fantasma dell’Opera l’asimmetria amorosa tocca il suo vertice, grazie anche alla particolare sensibilità della protagonista femminile, Christine Daaé. Mentre nei romanzi precedenti la propensione dell’eroina per il mostro era quasi sempre inesistente, perché ella era solo oggetto e non soggetto di amore, qui in Christine Daaé l’amore per il bel Raoul e la pietà verso Erik convivono e lottano contemporaneamente, sono due elementi cardine di tutta la vicenda e rendono il romanzo un’allegoria dell’amore. Christine, infatti è mossa da profonda compassione per Erik, che soffre e che è stato creato così orribile eppure così sublime. Tematiche, queste, che si ritrovano anche ne Il Gobbo di Nôtre Dame di Victor Hugo e nella fiaba de La Bella e la Bestia.

La lotta tra Raoul ed Erik rappresenta, meglio che in altri romanzi del genere, l’espressione della lotta tra amore carnale e amore spirituale, tra sensi e spirito. Alla fine, la redenzione conclusiva di Erik, che lascia i due giovani liberi di vivere il loro amore, riconduce ad unità le due facce del sentimento. E’ certamente questa la soluzione psico-sentimentale più giusta e di ciò si rese conto anche il regista Francis Ford Coppola, che nel suo film Dracula di Bram Stoker del 1992 rese schiavo d’amore anche il Conte vampiro, immaginando che per lui Mina Harker fosse la reincarnazione dell’unica donna mai amata e che lei lo corrispondesse, e gli regalò una redenzione conclusiva nel momento della morte.

1 Cito fra tutte la recentissima raccolta di saggi curata da Francesca Billiani e Gigliola Sulis dal titolo The Italian Gothic and Fantastic. Fairleigh Dickinson University Press, 2008.

2 La citazione è tratta da The Yale Edition of Horace Walpole’s Correspondence, a cura di W.S. Lewis, Oxford University Press, 1937.