Sta per essere pubblicata una seconda edizione del mio libro “Giuditta Bellerio Sidoli. Vita e amori”. Una biografia appassionante, la storia della vita di una donna poco conosciuta, ma che costituì un punto di riferimento importantissimo nella vita di Giuseppe Mazzini.
Per “prepararsi” all’uscita del volume, che sarà anche il libro pilota della nuova collana editoriale “Mnmosine” della Licosia Edizioni, sono in programma alcuni eventi nella mia città, Genova, di cui vi darò notizie prossimamente. Per il momento vi do un assaggio, raccontando qualcosa di questo personaggio femminile, che viaggiò in incognito per mezza Italia, braccata dalla Polizia di tutti gli stati per riuscire a ricongiungersi con i propri figli.
“Gian Bologna, capo della polizia a Firenze, si stupì non poco quando il 12 dicembre 1833 gli dissero che la signora Pauline Gérard voleva vederlo: quella donna era un cruccio per lui, perché aveva ricevuto dal ministro per l’Estero Fossombroni una lettera allarmante. La lettera diceva: “Il dipartimento degli Affari esteri è stato segretamente informato come il Comitato centrale della Giovine Italia…..abbia spedito in questi giorni nella capitale di questi regi dominii un’emissaria, allo scopo di mettere in relazione i liberali toscani….coi capi della setta residente in Svizzera, e soprattutto con Giuseppe Mazzini…Le informazioni segnalano come pericolosissima la suddetta emissaria…”. E, guarda caso, in ottobre era giunta da Marsiglia una giovane donna, Pauline Gérard, appunto, ed il Bologna aveva il dubbio che potesse essere lei l’inviata di Mazzini.
Le sue perplessità aumentarono quando se la trovò di fronte. Era indubbiamente molto bella, anche se l’abito invernale scuro la infagottava un po’: slanciata, con folti capelli castano chiaro e dolci occhi neri e con l’aria spaurita di chi ha un peso sul cuore. Dichiarò subito il suo vero nome, Giuditta Bellerio, vedova di Giovanni Sidoli; spiegò tra lacrime e sospiri di aver nascosto la sua identità per riuscire a tornare in Italia e giurò di non avere altro scopo che quello di rivedere i suoi quattro bambini.
Il funzionario decise per il momento di lasciarla libera, ma ordinò che fosse sorvegliata giorno e notte. La vigilanza fu inutile: Giuditta Sidoli era una donna molto prudente e sapeva che la polizia la teneva d’occhio. Del resto il suo viaggio era veramente un tentativo di riavvicinamento ai figli: Maria, Elvira, Corinna e il piccolo Achille le erano stati tolti tre anni prima da suo suocero, Bartolomeo Sidoli che, pur essendo un uomo fondamentalmente buono e generoso, li aveva presi con sé a Reggio Emilia per tenerli lontani dalla madre, coinvolta nelle vicende rivoluzionarie di quegli anni.
E Giuditta, ormai, in quelle vicende era irrimediabilmente coinvolta. Nata a Milano nel 1804, figlia del barone Andrea Bellerio, era stata educata in collegio e ne era uscita solo a sedici anni per sposare il bel Giovanni Sidoli, un ricco giovane di Montecchio di Reggio Emilia che aveva aperto il cuore e la mente alle idee di libertà che le società segrete cominciavano a divulgare ed aveva trasmesso la sua passione alla giovane moglie.
Ma la loro vita insieme era durata pochi anni. Già nel 1822, un’improvvisa perquisizione della polizia ducale nella villa dei Sidoli a S. Pellegrino aveva consigliato che Giovanni lasciasse l’Italia: aiutato da suo padre era fuggito in Svizzera, appena in tempo, perché con sentenza del 17 settembre 1822, veniva condannato a morte in contumacia dal tribunale di Rubiera. I motivi della condanna erano inconsistenti (appartenenza alla società segreta dei Sublimi Maestri Perfetti, costituitasi a Reggio ed acquisto per i consociati di polvere da sparo), ma sufficienti a costargli la vita.
Giuditta lo aveva raggiunto, portando con sé la figlia Maria di pochi mesi. Durante l’esilio in Svizzera erano nati altri tre bambini, ma qualche anno dopo, nel 1827, Giovanni si era ammalato di tubercolosi ed era morto il 3 febbraio 1828 a Montpellier, dove si erano trasferiti: rimasta vedova a soli ventiquattro anni, Giuditta aveva deciso di tornare in Italia con i suoi figli.
Il suocero l’aveva ospitata volentieri e l’avrebbe tenuta con sé, se quella benedetta ragazza non si fosse cacciata di nuovo nei pasticci: in quel periodo a Modena, Parma e Forlì, un gruppo di liberali tra cui Ciro e Celeste Menotti, Carlo e Nicola Fabrizi ed altri, stava organizzando la cospirazione che sarebbe culminata nei fatti drammatici del 1831, a causa dell’ambiguo comportamento del duca di Modena, Francesco IV. Giuditta aveva partecipato attivamente ai preparativi dell’insurrezione, adoperandosi tra l’altro per organizzare una guardia nazionale che avrebbe dovuto sostituire il presidio urbano dopo la cessazione del Governo del duca. Per questa attività era stata condannata all’esilio ed aveva dovuto abbandonare i figli e trasferirsi a Marsiglia. Là, nel 1832, era riuscita a prendere in affitto una bella casa in rue Saint Ferréol e presto era entrata in contatto con gli esiliati italiani, tra i quali vi erano anche Celeste Menotti, Giovan Battista Ruffini, Gustavo Modena e Giuseppe Mazzini.
Mazzini era un uomo solo, anche se attorniato da amici e sostenitori, solo con i suoi progetti, i suoi ideali, i suoi tormenti interiori: all’inizio, i pomeriggi e le serate passati nella casa di rue Saint Ferréol insieme agli altri, gli sembrarono soltanto piacevoli momenti di comunione e di scambio, poi le cose cambiarono. Giuditta Sidoli era intelligente, appassionata, impulsiva e dimostrava uno straordinario equilibrio di volontà ferrea e sensibilità: Mazzini se ne era innamorato perdutamente (ma non la sposò). Fra tutte le donne che gravitarono nell’orbita del grande cospiratore, lei rimase “l’unica”, “l’amata come qualcosa di grande, di santo, di bello, che non si è degni di definire”. Era divenuta prima la sua fedele confidente, poi l’amante, anche se nel maggio del 1833 scriveva all’amico Giuseppe Rondanini “Io sono oltremodo stanca dal sopportare l’emigrazione, cioè dell’essere divisa dai miei bambini…..provo, alcuni momenti, d’un dolor tale da non potere esprimere”.
Proprio in quel mese era stata istituita una Commissione speciale militare con l’incarico di stroncare ogni attività rivoluzionaria, anche solo di diffusione di pubblicazioni. Perquisizioni e condanne durissime si erano susseguite: Jacopo Ruffini, amico fraterno di Mazzini si era ucciso in carcere nella notte tra il 18 ed il 19 giugno e Mazzini stesso era stato condannato a morte in contumacia il 26 ottobre. I due amanti avevano forse da poco avuto un figlio: sulla base di riferimenti indiretti contenuti nel loro carteggio, molti studiosi ritengono che il bambino, Giuseppe Demostene Adolfo Aristide, nacque a Marsiglia e morì a pochi mesi. La Sidoli, delusa dall’andamento della sua vita sentimentale e dal fallimento dei programmi politici, aveva lasciato Mazzini e lui ne soffrì molto. “…Io ho un presentimento” confidò in una lettera a Luigi Amedeo Melegari, giureconsulto e uomo politico, “che non la vedrò mai più. Per lei era meglio ch’io non l’avessi veduta mai…..L’ho travolta nel mio destino, e n’ho rimorso vero, perch’io quando la vidi avea pur giurato a me stesso di non amar più persona del mondo….Possa ella almeno viver tranquilla sino all’abbraccio de’ suoi bambini! Io non posso farla felice, ma l’amo”. Col tempo quel vuoto che sembrava incolmabile fu invece colmato da altre donne, anche da George Sand ma, per Mazzini, Giuditta Sidoli rimase sempre una tenera amica, grazie alla quale era riuscito a superare persino il pensiero del suicidio che lo aveva sfiorato nei momenti più bui della sua vita, quelli della perdita della sorella, delle calunnie, della tragica morte di Jacopo Ruffini.
Prima di raggiungere Firenze, Giuditta si era fermata per qualche tempo a Montpellier dov’era sepolto suo marito e dove si era rifugiato Gustavo Modena. L’attore sarebbe rimasto in esilio non solo per motivi politici ma anche per amore della contessina Giulia Calame, che lo sposerà nel 1836 contro la volontà della famiglia e con lui vivrà i momenti più esaltanti del Risorgimento, partecipando tra l’altro alla difesa di Roma nel 1849 come infermiera volontaria al fianco di Cristina di Belgioioso.
Ora, nel dicembre 1833, Giuditta era a Firenze e doveva pensare ai suoi bambini: l’amore per Mazzini non era certo stato un fuoco fatuo, ma ad alimentare questo amore non bastava il fascino degli ideali. Il ricordo veniva lentamente sopraffatto da affetti più profondi e concreti, come quello per i figli, e da un insopprimibile desiderio di libertà. Intanto lui, solo e sconfitto le scriveva: “Se potessi averti, abbracciarti, dormire una sola volta con la testa appoggiata sulle tue ginocchia…amami quanto puoi, io ti amo quanto tu puoi volerlo….”.
La sorveglianza della polizia toscana su Giuditta servì solo a scoprire che la giovane signora non osservava i precetti religiosi, mangiava carne il venerdì e riceveva alcune visite, soprattutto quelle del marchese Gino Capponi, Gran Ciambellano del Granduca. Alto, con il viso lungo dominato da occhi chiari e profondi, Capponi era a quell’epoca uno dei maggiori esponenti della cultura liberale italiana. Discendente di una famiglia di tradizioni antichissime, non faceva mistero delle sue idee, protetto dalla posizione sociale e dalla ricchezza e si distingueva anche per una grande coerenza morale.
Fra la bella vedova ed il gentiluomo quarantenne nacque una tenera amicizia e forse qualcosa di più. Fatto sta che “il caro Gino” come lo chiamava lei, l’aiutò, la consigliò, la protesse, favorì anche un suo tentativo di fuga verso Lucca e, dopo che le autorità lo scoprirono, intervenne per attenuarne le conseguenze. Con l’aiuto del marchese, Giuditta aprì il suo salotto alla società liberale toscana, sempre sotto l’occhio vigile della polizia. Dopo vari tentativi di riabbracciare i figli, nel settembre del 1834 decise di partire per Napoli, pressata dalle insistenti lettere di Mazzini che voleva rinsaldare i rapporti con gli esponenti napoletani della Giovine Italia ed al contempo cercava di riaccendere in lei una passione che sentiva affievolirsi.
A Napoli la Sidoli ebbe frequenti contatti con il conte Ferretti, uno dei fautori dei moti rivoluzionari del ’31, poi, all’inizio del gennaio del 1835, si trasferì a Roma e continuò la sua fitta corrispondenza con Mazzini. Mentre lei scriveva a Capponi “Io voglio rivedervi…vi vorrò bene e non mi scorderò mai…”, Mazzini sentiva odore di tradimento d’amore e le raccomandava: “quell’uomo non mi piace, diffida di lui”.
Mazzini e la Sidoli non sapevano però di essere controllati molto da vicino, né tantomeno sospettavano che chi informava la polizia era probabilmente Michele Accursi, amico di Mazzini. In una sua lettera alla polizia romana si legge: “…Questa donna ha un mirabile ingegno, forse unico per donna; e che senza dividere interamente le opinioni con Mazzini vi è fra loro un affetto ed una stima reciproca……Voi potete sorvegliare la corrispondenza senza però arrestarla, perché sarebbe cosa di niun vantaggio…”.
Intanto Gino Capponi, preoccupato per l’angoscia in cui viveva Giuditta a causa della lontananza dai figli, favorì una sua richiesta di aiuto al Cardinale Bernetti, perché intercedesse presso il duca di Modena. Il Cardinale si attivò subito ma il duca fu irremovibile: le fu comunque concesso di soggiornare a Bologna ed il suo affetto per Capponi aumentò ulteriormente.
Nel 1837 riuscì finalmente a stabilirsi a Parma; spesso però tornava a Firenze, a trovare Gino Capponi che stava diventando cieco. Passavano lunghi pomeriggi insieme e lei gli parlava dei suoi figli, che crescevano in collegio, mentre lui le spiegava i suoi progetti politici. Nel 1839 il vecchio Sidoli morì, ma Giuditta riebbe Maria, Elvira e Corinna solo nel 1843: erano diventate belle, intelligenti e coraggiose come la madre e poco dopo anche Achille poté unirsi a loro.
Per lei fu come toccare il cielo con un dito e la grande casa di Parma divenne il punto di incontro di tanti spiriti liberi, grazie anche al tollerante governo della duchessa Maria Luigia. Le idee mazziniane di Giuditta furono anche dei suoi figli: le ragazze si adoperarono in favore dei cospiratori, mentre Achille combatté per l’unità d’Italia e nel 1849 partecipò alla difesa della Repubblica Romana.
In quello stesso anno Mazzini e la Sidoli si rividero. Fu a Firenze. Il perché della presenza di lei in quella città risultò chiaro a Mazzini, che scrisse all’amico Lamberti “Ti scrivo dalla casa di Giuditta, che ho riveduto con più gioia che non posso dirti. Comincio l’ultimo periodo della vita errante e Dio sa dove vado a finire”. Parole che rendono bene l’amarezza per un amore ormai perduto per sempre.
All’inizio degli anni ‘50 a Parma, dopo la morte di Maria Luigia d’Asburgo-Lorena (1847), il regime poliziesco del Ducato si era allineato con quello di Modena e le perquisizioni in casa Sidoli, anche se infruttuose, portarono ad un nuovo esilio.
Giuditta trascorse a Torino l’ultimo periodo della sua vita, circondata dall’affetto dei figli, seguendo costantemente le vicende politiche italiane e quelle degli uomini che aveva nel cuore. Mazzini le faceva visita clandestinamente e Capponi condivideva con lei i suoi successi politici (nel 1859 fu presidente della Consulta di Stato nel Governo provvisorio e poi Senatore del Regno).
Entrambi piansero la sua morte il 28 marzo 1871”.